Guardando Il Diavolo Veste Prada:
anni novanta, ero arrivata da poco a Milano. Non ricordo nemmeno come ero riuscita ad ottenere un lavoro come venditrice presso la show/room dell’ex braccio destro di Moschino. Ai miei occhi di paesana sbarcata da una cittadina molto provinciale, quella la’ sembrava il diavolo in persona.
La sua assistente, una sorta di Maga Magò con tanto di capelli rosso menopausa era addirittura peggio.
Io di moda non ne avevo mai capito una mazza. Anche adesso eh, la mia conoscenza non è esattamente migliorata. Però, allora, non sapevo riconoscere un’asola da un taglio a vivo. Ricordo che mi scrivevo degli appunti sui look books a penna rossa e che quando arrivavano i clienti internazionali per comprare la collezione, normalmente improvvisavo una sorta di teatro dell’assurdo. Eravamo obbligate a vestire sempre di nero con abiti dell’azienda. In parte regalati.
Il nero non distrae e soprattutto non influenza il cliente circa l’acquisto dei colori dell’anno.
Arrivò Parigi. La mia collega veniva dalla Marangoni, aveva studiato un sacco, conosceva tutto. Ci teneva. Fini’ che a Parigi la megera portò me e non lei. In parte perché ero più carina, in parte perché avevo quella sfrontatezza (anche detta faccia da culo) che mi ha sempre aiutato nella vita e non mi ha mai messo in difficoltà di fronte a persone più importanti o di successo rispetto a me.
L’invidia non mi è mai appartenuta e ne sono contenta. La morale della storia è che dopo Parigi, le fiere, i ristoranti alla moda, le lusinghe della mia ex capa, mi licenziai e finii a fare ‘altro’.
Il Diavolo Veste Prada non parla di moda, parla di scelte e di orgoglio e di amor proprio ed è per questo che lo guardo sempre con tanto ‘amore e rispetto’.